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La voglia di partire e l’impatto con gli Stati Uniti. I timori iniziali e l’adattamento ad una nuova cultura, un nuovo modo di vivere, un nuovo Paese. Le soddisfazioni in campo e fuori, lo studio, gli impegni quotidiani e le differenze con l’Italia.

Abbiamo intervistato Chiara Cucco, studente-atleta di Hofstra University, che si è raccontata a 360°.

Partiamo dal campo. Tanti riconoscimenti, tanti premi, tante soddisfazioni. Che momento stai vivendo e soprattutto qual è il premio che più ti ha reso orgogliosa sin qui?

Sono molto soddisfatta di tutti i premi e riconoscimenti che mi sono stati assegnati.Questi primi due anni sono stati davvero fantastici sotto questo punto di vista: dimostrano che sto facendo un buon lavoro e che non sono l’unica a notarlo. Ovviamente però, essendo io estremamente competitiva, per quanto sia grata per questi premi, aspiro ad ottenerne sempre di più. Senza dubbio, ciò che mi ha reso più orgogliosa è stato il premio di “Libero of the year” ottenuto quest’anno, in un’annata molto difficile per me perchè a inizio stagione ho subito un infortunio al ginocchio che mi ha impedito di esprimere al meglio il mio gioco e mi ha costretto a giocare sentendo molto dolore per circa 3 mesi. Il fatto di aver ottenuto questo riconoscimento nonostante le mie non ottime condizioni fisiche mi ha riempito di orgoglio e mi sono sentita ripagata per tutti gli sforzi fatti.

La paura di tanti studenti-atleti è quella di un ambientamento lento e difficile. Qual è stato il tuo impatto con gli States?

Sicuramente prima di partire anche io avevo questa paura, penso sia normale. Personalmente mi ritengo molto fortunata perchè una volta arrivata negli States sono stata subito accolta in maniera straordinaria dalle mie nuove compagne di squadra, dagli allenatori e da tutte le persone che ho incontrato. Mi ci è voluto un po’ per ambientarmi perchè è una realtà completamente diversa da quella a cui ero abituata, ma non sono mai rimasta da sola e ho trovato persone disposte ad aiutarmi per qualsiasi cosa avessi bisogno. Un fattore che mi ha sicuramente aiutato è stato il fatto che molte delle mie compagne non venivano dagli States e quindi capivano perfettamente cosa stavo attraversando e come potermi aiutare.

Torniamo al campo, parlando sempre d’impatto. Quanto è differente la pallavolo americana rispetto alla nostra? Parliamo di allenamenti, approccio alla gara e mentalità.

Il gioco essenzialmente è lo stesso, ma ci sono alcune differenze sia a livello di regole di gioco sia a livello di mentalità e approccio alla gara. Innanzitutto, per quanto riguarda il gioco, il fatto che la palla possa colpire il soffitto senza che il gioco si interrompa (una cosa che ancora mi risulta strana ad essere sincera) oppure il fatto che il libero debba battere, cosa che non ho mai fatto in Italia e che ho dovuto imparare una volta arrivata qua. Inoltre, il campionato è strutturato molto diversamente, la stagione dura solamente 3 mesi, da settembre a novembre, quindi tutto è organizzato in maniera diversa. Avendo una stagione così breve e giocando due partite ogni weekend, non c’è tempo per avere più di un giorno di riposo a settimana e ogni allenamento è di almeno 3 ore, a cui poi si deve aggiungere il tempo speso per pesi e per video prima di una partita. Mi è capitato spesso di stare in palestra anche 6 o 7 ore di fila. Di conseguenza, lo sforzo fisico è notevole e bisogna quindi imparare a giocare non essendo proprio al meglio della forma fisica o avendo dei piccoli dolori, perchè non c’è tempo per fermarsi.

Un’altra cosa differente, forse la più diversa di tutte, è l’importanza data ai rapporti all’interno della squadra e lo sforzo che viene fatto per creare un gruppo il più compatto possibile. Ho veramente speso tantissimo tempo con le mie compagne di squadra, sia in campo che fuori, facendo moltissime cose diverse, che mi hanno permesso di conoscere meglio tutte loro e di creare amicizie più profonde. Questo è molto importante perchè, avendo così tante persone provenienti da ogni parte del mondo, sarebbe impossibile sviluppare un buon gioco senza prima trovare dei punti in comune e creare dei legami tra di noi.

Si tratta di una mentalità molto diversa da quella che ho conosciuto in Italia, qui l’attenzione è esclusivamente rivolta alla squadra, non al singolo, e per farne parte devi essere disposto a sacrificare molto tempo libero e a metterti sempre al servizio della squadra, ma alla fine ti permette di sviluppare dei rapporti veri e che vanno al di là del semplice gioco.

Il percorso da studente- atleta è entusiasmante quanto difficile. Qual è la tua giornata tipo tra allenamenti e studio?

La mia giornata tipo varia a seconda degli impegni e quest’anno è stata molto influenzata dall’infortunio che ho subito. Solitamente arrivo in palestra intorno alle 7:00 del mattino, faccio un’ora di terapie o esercizi per i vari infortuni o dolori, e inizio allenamento. Dopo allenamento, che finisce intorno alle 11:00/11:30 abbiamo circa 1 ora di pesi e poi ulteriori trattamenti e terapie. In alcuni casi abbiamo anche video dopo pesi, dipende dai giorni. Lascio la palestra di solito intorno alle 2:00 del pomeriggio e ho giusto tempo di mangiare qualcosa prima dell’inizio delle lezioni. Ho due o tre lezioni al giorno  e una volta finito mi dedico allo studio, ai compiti o, se ho completato tutto ciò che avevo da fare, semplicemente a rilassarmi. Questo succede praticamente  tutti i giorni, tranne il venerdì, quando non abbiamo lezioni perchè solitamente siamo in viaggio se giochiamo in trasferta, e nel weekend, dove abbiamo una partita sabato e una domenica.

Qual è la cosa che più ti manca dell’Italia e quale invece la cosa che più ti piace e ti ha colpita degli States?

Sicuramente la cosa che mi manca di più dell’Italia è il cibo, a parte famiglia e amici ovviamente. Sembra banale, ma è la verità, il cibo italiano non ha eguali. Per quanto debba ammettere che il cibo qui sia migliore di quanto mi aspettassi, nulla sarà mai come un piatto di pasta fatta in casa.

Una cosa che invece mi ha colpita moltissimo è quanto gli studenti-atleti siano riconosciuti all’interno dell’università, non solamente dalle persone che ci supportano durante le partite, ma da tutti gli studenti, i professori e anche il personale che lavora nel campus.

Camminando per il campus mi è capitato più volte di essere fermata da persone mai viste prima che volevano congratularsi con me per una vittoria o per un premio ottenuto. Questa è una cosa molto bella, mi fa sentire molto apprezzata e mi sprona anche a dare sempre di più: so che quando gioco non lo faccio solo per me o le mie compagne, ma anche per tutte le persone che ci supportano e ho il dovere di rappresentare la mia università al meglio.

Chiudiamo questa intervista con il tuo punto di vista su questa esperienza. Cosa ti ha dato sin qui da un punto di vista umano, sportivo ed accademico questa avventura?

Questa esperienza mi ha insegnato e mi sta insegnando molto sotto ogni punto di vista. Dal punto di vista sportivo, come già detto, ho dovuto adattarmi ad un nuovo tipo di gioco e soprattutto ad una mentalità diversa. Dal punto di vista accademico si è trattato sicuramente di un passo importante, per il fatto di dover affrontare l’università e di doverlo fare in una lingua diversa, in un paese diverso e in un sistema completamente diverso.

Penso, però, che la crescita più grande per me sia stata dal punto di vista umano. Questa esperienza mi sta facendo crescere davvero molto come persona, ho dovuto imparare a prendermi cura di me stessa, a relazionarmi con persone provenienti da ogni parte del mondo, ad assumermi le mie responsabilità.

Specialmente quest’anno, che sono stata nominata capitana della squadra, ho dovuto imparare ad ascoltare gli altri, a farmi carico dei problemi e trovare una soluzione. Tutto questo mi ha fatto crescere molto in poco tempo e mi sta sicuramente preparando per la vita che mi aspetta una volta lasciata l’università.